Haribo, lo scandalo delle caramelle gommose

Sono delle semplici caramelle gommose: quelle a forma di orsetti, o con strisce di liquirizia o a forma di fragola marshmallow: ma, secondo il canale della tv tedesca Ard, che ha trasmesso il documentario “The Haribo Check“, dietro la nota azienda di caramelle e dolciumi Haribo si nasconderebbe una realtà fatta di schiavitù dei dipendenti e materie prime di pessima qualità.

Due sono le accuse principali che sono venute fuori contro l’azienda dolciaria Haribo nel documentario tedesco di oltre 40 minuti che ha suscitato tanto scalpore: il fatto di sfruttare, anche se indirettamente, dei lavoratori brasiliani trattati da schiavi (tramite la scelta di fornitori poco etici per uno degli ingredienti chiave delle caramelle, la “cera di carnauba”) e il fatto di ottenere la gelatina per le caramelle da allevamenti di maiali in cui le bestie vivono in condizioni spaventose.

I fornitori brasiliani della cera di carnauba per la Haribo (cera estratta dalle foglie di una palma tropicale, che servirebbe a rendere lucide le caramelle) tengono infatti i loro lavoratori nelle piantagioni tutto il giorno, costringendoli a turni massacranti, in cui li lasciano dormire all’addiaccio, in camper o per terra, senza poter usufruire di bagni, bevendo l’acqua sporca dei fiumi, per un totale di dieci euro al giorno. Tra i lavoratori, molti minorenni, tantissime donne.

E se la Haribo può dire di non essere stata a conoscenza di come i loro fornitori trattano i lavoratori nel nord del Brasile, diventa più difficile pensare che non sappia come viene ricavata la gelatina dal loro fornitore tedesco. O meglio, che la gelatina sia di origine animale lo sappiamo tutti, e che venga special modo dal maiale anche. Il problema è che i maiali in questione da cui la Haribo ottiene indirettamente la gelatina per le caramelle gommose sono allevati in condizioni terribili, e nello sprezzo delle norme igieniche più basilari. Ma come possono venire alla luce problematiche tanto gravi, in un’azienda europea, quindi occidentale, che dovrebbe avere degli standard e delle norme da seguire, sia di etica che di igiene?

La parola chiave è “esternalizzazione” e dobbiamo renderci conto che non riguarda “solo” la Haribo, ma tutte le grandi, medie e persino piccole aziende che per abbattere i costi affidano a dei fornitori esterni una parte della loro produzione, senza chiedersi il motivo di prezzi tanto concorrenziali. Lo stesso motivo per cui le grandi catene di negozi di moda sono finite nell’occhio del ciclone: tessuti confezionati nelle parti più povere del pianeta, in cui fornitori senza scrupoli si comportano da veri e proprio schiavisti. Per non parlare della questione alimentare: nel caso della gelatina si tratta di una vera e propria materia prima. La gelatina da animali al pascolo, allevati ad erba, con tutti i controlli igienici, o di maiali nutriti a ghiande e castagne, costa infatti cento volte di più, ed è un prodotto non solo nutriente, perché ricco di collagene di prima qualità, ma sicuro sotto il profilo igienico. Certo, senza ricorrere a un ingrediente di origine animale, si potrebbe usare l’agar agar, derivato dalle alghe rosse della Cina e del Giappone. Ma anche lì, bisognerebbe essere sicuri della provenienza del prodotto, delle sue origini biologiche al cento per cento: vi fidereste a mangiare gelatina ottenuta da alghe di mari inquinati, lavorata in condizioni igieniche pessime, con una percentuale tossica di metalli pesanti? Sono problematiche che su internet si menzionano di rado, ma che sono presenti nei rapporti della FDA, che comunque considera sicuro l’agar agar in mancanza di dati ulteriori (fonte).
Ma è questo il problema dell’esternalizzazione: che il consumatore finale non può mai essere consapevole dell’origine degli ingredienti e delle condizioni di chi lavora perché quel prodotto sia negli scaffali dei supermercati a un prezzo competitivo.